mercoledì 27 maggio 2020

PILLOLINE

Su il sipario.
Se non ricordo male avevo circa 6 anni, mia madre faceva la parrucchiera e il negozio era stato ricavato dal garage di casa. Di sera, dopo cena, andavo di là, chiudevo la porta e partivo per lo spazio più profondo. Mettevo i carrelli di plastica grigia, quelli dove mia madre teneva i ferri del mestiere, uno a destra e uno a sinistra, mi sedevo sulla poltrona lava capelli, mettevo il casco asciuga capelli sulla testa e di fronte la console con i trucchi che era piena di specchi e somigliava, con le ciprie e i rossetti colorati, ad una plancia d’astronave; ed eccomi, volavo alla velocità della luce. Lo studio nuovo dove lavoro, nell’appartamento nuovo dove adesso vivo, ha la stessa forma di quel gioco spaziale.
Provo a spiegarmi. Non ce l’ho con i giovani che non seguono le regole, sono giovani e delle regole devono cercare di fottersi; ma non capisco perché buttare tutto per terra, nel verde, quello è da deficienti e soprattutto ha il senso di beffa della “sega cinese”, che consiste in questo: ci si da delle martellate sul membro disteso su una superficie, apposta, e quando si sbaglia, il membro, quella mancanza di dolore è il godimento.
Anacoluto. L’anacoluto, figura retorica bellissima, ci insegna che la pazzia può accomodarsi anche dentro le regole ferree. L’anacoluto è quello che mi interessa nelle storie: inserire elementi che non c’entrano nulla, per rompere la linea retta.
Zia abitava l’appartamento dove mi sono trasferito da qualche giorno. Casa numero 8, nel senso che quest’ultima è l’ottava casa in cui vivo, senza calcolare la casa dei miei genitori dove sono cresciuto. Una vita un po’ zingara. Quando venivo a trovare zia, la trovavo lugubre: così piena di mobili scuri, pizzi e merletti e lampadari penzolanti. Adesso che l’ho resa mia, la trovo molto bella: di giorno è innondata di luce; c’è un glicine sul balcone. Mi pare Casa da sempre.
Insisto su una cosa: non vedo scrittori italiani della mia generazione o più giovani, che possano lasciare il segno. Perché dico “vedo”? Perché se ne stanno tutti in video da qualche parte. Poi sono tutti per i diritti di ogni tipo e genere, onesti, educati, sempre d’accordo, brave persone insomma. Qualcuno gli dica che i veri scrittori non sono mai brave persone.
Alle 12.40 circa, dopo pranzo, quando ero in ospedale e c’era l’estate, mi facevo portare da mio padre giù al piano terra, fuori, nel poco spazio con un poco di verde, per pigliare un po’ di sole in faccia e provare a sentire la vita. Mi spingeva con la carrozzella in una specie di percorso circolare, poi mi facevo mettere in un angolo, vicino alla porta d’entrata, all’ombra e guardavo la gente che andava e veniva. Li invidiavo: camminavano; erano esseri umani. Io chiedevo a mio padre di nascondere con la felpa la sacca di piscia che penzolava vicino alla ruota. Per fortuna non scorderò mai quel periodo, oggi, proprio in questi giorni, rido felice.
L’ora tarda rende tutti vulnerabili e mielosi, avete mai notato che dopo mezzanotte le cose diventano più morbide? Gli oggetti, intendo: le cose! Toccateli prima di mezzanotte e dopo mezzanotte e se ascoltate bene, sentirete una certa mollezza atomica sotto i polpastrelli.
Erodiade di Flaubert, lo trovo uno dei racconti più sensuali che mi sia capitato di leggere. La prosa di Flaubert è sensuale, ma in più c’è la morte e, anche se vi sembra lugubre, dove c’è la morte c’è sensualità; non nel senso necrofilo, ma al contrario: la certezza della morte è benzina della vita, ci spinge a vivere tutto.
Giù il sipario.

domenica 17 maggio 2020

PILLOLINE


Su il sipario
Fare fumetti, come fare qualsiasi altra “cosa artistica” non ha un'importanza specifica, oserei dire che non ha nessuna importanza. L’arte è un’esperienza umana proprio nel senso che non ha uno scopo. L’arte è effimera, non serve alla vita – in senso meccanicistico – questa è la sua grandezza: una delle caratteristiche che ci distingue dall’animale è poterci permettere di divagare.
Unite i punti e avete una linea, cioè “il segno”. La linea se fa un percorso che descrive qualcosa di universalmente riconoscibile, diventa “il disegno”. Se a questa figura riconoscibile unite un testo comprensibile, avete un fumetto. Senza testo è un’illustrazione. Senza testo ma ripetuta in diversi movimenti o situazioni abbiamo di nuovo un fumetto. Non è difficile: il fumetto è disegno che descrive un oggetto (o figura) che si muove in sequenza non continua.
Mi sento di confessare che delle polemiche sul fumetto, chiamato in modi diversi da “fumetto”, non me ne frega nulla. Trovo il vocabolo “fumetto” brutto e ridicolo, ma ormai è questo il nome e chi se ne importa. L’importante è non farci delle crociate di fede su qualcosa che ha lo stesso nome del brodetto fatto con la testa e le interiora del pesce.
Escatologico è un termine che potrei attribuire a molti discorsi che sento sul fumetto. Per me c’è una verità nella percezione che ancora persiste del fumetto, visto come una “sorta di gioco per bambini”. I fumetti non sono all’altezza delle altre discipline artistiche (odio la parola disciplina, mi sa di gabbia), questo è il sentire comune. Naturalmente è una scemenza: credo che, per esempio, in Italia la letteratura contemporanea sia fiacchissima rispetto al fumetto contemporaneo. Però è vero che vedere cinquantenni impazzire per i pupazzetti di Batman o sfoggiare finte spade laser, è sconfortante.
Tutto scorre, Panta Rei. Non c’è traccia di questa parola nei pochi scritti di Eraclito, ma il concetto lo si è attribuito a lui con un certo buonsenso. Il fumetto è Panta Rei, se non scorre non è fumetto. Non solo nel senso “pratico” di lettura, intendo che se non passa al lettore, se no c’è un flusso continuo tra vita-autore-libro-lettore-vita, non credo sia un buon fumetto. In questo il fumetto è arte: se non fa scorrere la vita (effimera!) tra e nelle persone, non è fumetto. Chi proclama una “vita di merda” a ogni spiffero, non è un fumettista.
Tutto torna: l’arte non serve; il fumetto non serve. Se la grandezza sta nell’effimero, che è per concetto accattivante, nella caducità del tutto, capirete che tutto ha la stessa importanza, cioè nessuna importanza, per contrasto. Dunque mi chiedo sempre perché i fumettisti – o gli illustratori – si offendono quando gli dicono che “non fanno un lavoro”. Altra cosa è l’essere pagati: lì divento positivista, perché sono (anche) un vizioso.
Ora è chiaro, lo è almeno per me, che il fumetto, come tutti gli ambiti che tendono a fare “ghetto”, sbagliano il bersaglio, perché laddove ci si chiude in spazzi impermeabili l’aria diventa fetida e la muffa prende il sopravvento. Perciò taglierei di netto la querelle che riguarda il concetto di fumetto come termine: chiamatelo come volete, come fate con i figli o i cani. Perché nelle lamentele dei “fedeli” si annusa odore di cancrena, mentre il Fumetto, o Alcide, o Tippi Hedren, o Bicicletta, non ha bisogno di essere rinchiuso in stupide congetture.
Giù il sipario.

giovedì 14 maggio 2020

PILLOLINE


Su il sipario.
Non sopporto molto i riti, se non hanno natura mistica. Tipo quella cosa del caffè al bar fatto in un certo modo se no non sei italiano e che diavolo lo bevi a fare se non lo sei? Intanto me lo bevo come voglio io il caffè, che son maggiorenne e poi manco è tutta sta roba. Pensate pure che ci sia qualcosa di importante dietro o addirittura qualcosa che vi distingue come popolo. Non stavo più parlando (solo) di caffè.
Anassimandro diceva, pressapoco, che tutto è fatto di cose limitate, ma se le cose limitate continuano, nascono e poi muoiono, senza interrompere mai il ciclo, se da un positivo si stacca un negativo che si attacca a un nuovo positivo, si ha il divenire perpetuo, cioè l’eternità. Almeno così l’ho capito io. Non so se è giusto, ma mi pare affascinante che ogni cosa nasca dalla fine di un’altra e che tutto sia continuo. Bisogna accettare che il nostro è solo un eco che rimbalza all’infinito.
Sono mediamente simpatico, credo. Di sicuro non sono un mattatore. Qualche volta, se sono a mio agio, mi viene qualche battuta buona. Forse è la natura bresciana, sempre un po’ schiva. Oggi sono tutti simpatici, molto, troppo! Non parlo di questioni precise, dico nella normalità quotidiana. Non lo sopporto più: troppa simpatia fa rima con gigionerìa e diventa asfissiante. Si usa l’ossimoro: “Ti do un cazzottone di fiorellini”. Anni fa, avevo vent’anni circa, uno mi dice: “Togli la mano di lì! Ti taglio la gola e ci cago dentro!”… Era un amico e si trattava di cosa futile.
Tanta passione per la natura e amore per gli animali, mi si presentava una volta una ragazza. Diceva che gli animali, e la natura, sono migliori degli uomini. Io le dissi che “migliore”, o il suo contrario “peggiore”, sono giudizi dati dall’etica o comunque dalla coscienza e che la natura, e a quanto pare nemmeno gli animali, o almeno la maggior parte di loro, la coscienza non ce l’anno; dunque gli animali, e la natura, non possono essere ne migliori ne peggiori degli uomini. Non ci vedemmo più molto spesso.
Ritorna il problema “simpatici piacioni”. Guardo fra i colleghi farsi i complimenti, sempre, manco fossimo tutti dei geni bravissimi, comunque, uno dice all’altro: “Mi è caduta la mascella” per sottolineare la bellezza del disegno dell’amico. Ma che complimento è? Se ti cade la mascella è una tragedia! Ed è pure colpa mia! Perché non tornare a dire “bello”, o aggettivi simili? Ho anche deciso che userò il cuoricino solo per le femmine e il pollicione solo per i maschi.
Odio i delatori, a meno che non si tratti di crimini gravi, ma quelli si chiamano testimoni e sono doverosi. Girando per il mio paesello ho visto gente, di tutte le età compresi i vecchi, fuori dai bar a fare l’aperitivo: mascherato, un po’ di nascosto, ma comunque aperitivo. Io ci vivo nel bar, il bancone mi saluta quando mi siedo e non mi interessa farvi sapere se per me sia stupido farlo con l’emergenza ancora in corso, però mi da da pensare il fatto che siamo una società basata sull’aperitivo. Il vero segno della libertà personale: l’aperitivo! Ci sono dei dementi che parlano di “guerra”, di “gente alla fame”, fuori da un bar, con il bere camuffato e lo sguardo complice, urlano “me ne frego!” E poi si lamentano che lo stato non fa nulla.
Giù il sipario.

sabato 9 maggio 2020

PILLOLINE

Su il sipario.
Siryl! Si chiamava Siryl. Era una donna bellissima, un’attrice. Che entrasse in una stanza o passeggiasse in qualsiasi punto della terra, il mondo si fermava a guardarla, come in una ripresa al rallentatore. Era davvero impossibile non soffermarsi sulla sua bellezza, che non era per nulla artificiosa, ma anzi solare, con quella sottile ombra di “tocco del demonio”: lo sguardo era nero e penetrante, le forme di carne liscia e rotonda, ogni parte fremente e irresistibile.
Tutti volevano recitare e flirtare con Siryl, soprattutto quei giovani attori che speravano in una scena d’amore con lei: non potendo entrare nel suo cuore, si accontentavano di appoggiarsi sulle sue labbra e di sfiorarne le forme perfette, pur sapendola finzione. Però, Siryl, aveva un segreto. Un maledetto segreto, che si manifestava solo con lo starle vicino: il demonio l’aveva toccata in ogni parte e, fedele alla sua natura, oltre a darle dono di una bellezza folgorante le aveva dato anche un alito pestilenziale!
un metro da lei già si iniziava a sentire un fetore pungente, a mezzo metro ci si domandava chi era morto e a pochi centimetri il morto era chi le stava di fronte. Non c’erano rimedi, ne chimici, ne naturali: spray, mentine, collutorio; nulla funzionava. Con il demonio non si scherza. All’inizio molti, i più resistenti, facevano finta di nulla, finché era possibile; d’altronde alla perfezione di una bellezza divina si concede più di un’indulgenza, ma poi, anche i più innamorati o le più incantate, cedevano vergognandosi di rinunciare alla fortuna di essere arrivati fin lì, a quei pochi centimetri dalla gloria!
Raramente ho visto un tale spreco, disse un produttore navigato. Come capirete la sua carriera d’attrice durò il tempo di un lampo, ma la sua storia non finì male, anzi: terminò con il classico lieto fine. Su un set, in verità l’unico set che calcò nella sua avventura da attrice, conobbe un famoso regista. Non era il regista del film: quella pellicola a cui partecipava come coprotagonista era una commediola sentimentale di poco valore; ma il “famoso regista” venne in visita, invitato dall’amico produttore. Sta di fatto che, nel disorientamento della troupe che non capiva come quel “maestro” abituato ad avere ogni sorta di starlette ai suoi piedi potesse flirtare così da vicino con Siryl, la loro relazione prese avvio.
Si sposarono da lì a poco e la relazione, con alti e bassi – si sa come sono i registi – durò per molti anni. Il perché è presto detto. Si fecero molte congetture su un probabile difetto di olfatto dell’artista, ma in verità, fonti certe, che lo conoscevano bene, confermarono che il regista era uno di quelli con “la puzza sotto il naso”: quelli famosi per il loro intelletto e soprattutto per frequentare i salotti che contano. Certo che Siryl, per questo motivo, dovette mettersi un po’ in secondo piano, ma non le dispiaceva: era innamorata! Ebbero anche due figli e caso vuole, o forse ancora lo zampino del satanasso, uno era muto. Naturalmente rinunciarono alla vita mondana, anche se pare che adesso, in questi giorni di mascherine e distanza, si senta più tranquilla e abbia ripreso quel poco di vita sociale che è concessa a tutti noi.
Giù il sipario.

giovedì 7 maggio 2020

PILLOLINE

Su il sipario.
Fino a quando dovrò vedere in video gente che si sorride, si abbraccia, si fa il caffè e se lo beve con la cupola della basilica fuori dalla finestra? Per quanto ancora sentirò le parole inattuali, perché provenienti da un altro mondo, retoriche, perché lo sono sempre state, di Chaplin ne “Il dittatore”? Spalmate sulla colazione come se fosse la Torah del popolo italico.
Insegnare è difficile, è una missione, perché ti devi annullare in un certo qual modo. Certo che la personalità del docente è sacra per trasmettere qualcosa a chi sta lì ad imparare, ma dovrebbe fermarsi alla “teatralità”. Il rischio è che l’insegnante – lavoro frustrante perché di servizio – voglia fare dei suoi allievi dei discepoli: quello è il disastro.
La sera a cena, la mattina a colazione e a pranzo, guardo la televisione. A volte, per colazione, accendo la radio, dipende dai sogni della notte. Alle venti e qualcosa c’è una trasmissione sui partigiani, Gad Lerner li intervista. Sono tutti novantenni, alcuni hanno cento anni. Per me è la cosa più bella, che vedo in televisione, da un mucchio di anni. Tutte le sere piango.
In gioventù ero abbastanza ribelle, come tutti – o quasi (o quasi!) – del resto. Non ero particolarmente coraggioso o ardimentoso, ma si battagliava. Mai appartenuto ad alcunché, mai avuto tessere, mai frequentato persone con le stesse idee: però credo che se avessi avuto vent’anni nel tardo ’43, mi sarei procurato uno schioppo e sarei salito in montagna, nonostante il freddo, che non sopporto.
So che lo dico ogni volta, ma la retorica, soprattutto “sentimentale”, per me è una piaga purulenta. In questi tempi si sentono imprenditori difendere i lavoratori, dirsi una famiglia, per poi minacciare di lasciarla morire di fame questa famiglia se non arrivano aiuti dallo Stato, dalle nostre tasche, da altri lavoratori. Venditi lo Yacht, venditi le Bugatti e il Suv e magari le 10 ville in giro per il mondo e dividi con i tuoi nuovi famigli, non è difficile. Suona come “retorica di classe”? Può darsi, ma in questo ho un difetto: quando vedo il tizio con la Porsche lamentarsi e dare la colpa allo Stato mi sale il sangue ovunque.
Trovo quei vecchi partigiani intervistati da Lerner, bellissimi. Anche in senso estetico: guardateli, sono di una bellezza incredibile, quasi sensuali. Occhi ancora pieni di vita e una lucidità che è impensabile per molti giovanotti: questo dovrà pur dire qualcosa? Le esperienze ci formano, quelle fatte di paura, gioia, carne e sangue. Vivere nel virtuale vuol dire non divenire nulla, anche per questo non sopporto i nerd.
Essere sincero, cosa impossibile (in se) su quello che ci riguarda. Vi dico però, con sincerità, che non sono comunista, non lo sono mai stato. Partigiano sì, ma se al posto dei fascisti ci fossero i comunisti salirei con lo schioppo in montagna ugualmente. Li odio i fascisti, sia ben chiaro! Mio nonno si è rifiutato di combattere per i repubblichini dopo il rastrellamento e si è fatto due anni di campo di concentramento e se ne è tornato a piedi dalla Germania dopo la fine della guerra, mia nonna non lo ha riconosciuto quando se lo è trovato davanti alla porta, mummificato e pieno di pidocchi. Stigmatizzo anche i “post fascisti”, perché non esiste un “post-fascismo”, il fascismo non è una filosofia ideologica: o sei fascista o non lo sei (punto). Quello che odio di più, è chiunque mi obblighi ad avere la sua idea di mondo: mi obblighi con la forza! Per me la democrazia, anche se debole, non è mai dittatura, mai! Sul capitalismo ci sarebbe da discutere.
Ora potrei raccontarvi dei compagni che si fanno arrivare a casa il cinese con il delivery, ordinato dal loro splendido ultimo modello di iPhone e che poi scendono in piazza a protestare per i diritti dei lavoratori, ma non ve lo racconto. Time out! Poi qualcuno mi darebbe del “retorico” o forse del filisteo.
Giù il sipario.

domenica 3 maggio 2020

PILLOLINE

Su il sipario.
Bisogna che capiamo quanto il mondo sia complesso e, soprattutto, quanto sbagliamo a ritenere che “mondo” sia la tavola opulenta su cui l’uomo e la donna e tutti gli altri sessi, si possono servire comodamente strappando il cibo con le mani e poi ruttando.
Rido quando sento dire che il lavoro è un diritto, al massimo è un dovere e nemmeno verso se stessi o la patria, ma verso i supermercati e gli strozzini.
Ero piccolo, 3 anni circa, la prima volta che andavo in piscina. Sul bordo della vasca con le mie due sorelle già nuotatrici, il maestro dice “In acqua” e le mie sorelle si buttano. Mia madre mi aveva detto di fare tutto quello che facevano le mie sorelle, così mi butto anche io. Non so nuotare. Resto sul fondo, non ci si sta male. Tra le bollicine che salgono vedo sopra di me, ondeggianti, figure umane che si agitano. Mi tirano su. Lì ho capito che da soli si sta bene, ma si rischia di più.
Vi assicuro che non c’è scampo: si fa sempre – esattamente – quello che si predica di non voler – mai – fare! L’essere umano è fallace, più che fallico: difficilmente si inalza.
In un istante ho preso una decisione drastica e risolutiva, ieri. Il grosso problema è che non me la ricordo, per nulla.
Giù il sipario.

sabato 2 maggio 2020

PILLOLINE

Su il sipario.
A ripensarci, ho avuto una vita piena. Lo scopo non è di lasciare un segno, infondo chi se ne frega dei miei segni. Lo scopo è continuare il più possibile ad avere una vita piena, ancora per molti anni. Ricordo in America, USA, a Los Angeles, quando passando per una strada secondaria vidi Al Pacino, seduto al tavolo, dentro un bar, con una persona sulla sedia a rotelle. Sono entrato, mi sono accomodato di fronte ad Al, a circa due metri, ho ordinato e fatto il cliente. Il locale era vuoto a parte noi tre e lui mi ha notato. In un attimo eterno, per alcuni secondi, ci siamo fissati negli occhi. Che cosa voglio dirvi con questa storia? Niente! Però il pensiero di Al Pacino che si chiede: “Ma che cazzo hai da guardare!?”…
Mi sono fatto un’idea sulle persone e spesso è negativa, ma è anche vero che vengo smentito con qualche frequenza. La cosa che voglio precisare è che la maggior parte delle persone sono “buoni diavoli”, più di quello che si racconta o si percepisce, però, in maggior parte, sono poco interessanti. Non hanno molto da dirmi. Ammetto che posso essere io a non saper ascoltare.
E c’è un’altra cosa che ho notato negli ultimi anni – l’invecchiare è un terzo occhio che ti si apre piano piano al centro della fronte se sei un’esploratore, altrimenti se ne sta chiuso fra le natiche: le persone interessanti non fanno (quasi) mai parte degli “intellettuali”, dei “colti”, dei “Topi di biblioteca”, degli “artisti”, ma hanno sempre a che fare con la terra, lo sputarci sopra e vedere oltre le nuvole guardando attraverso il cielo.
Ritto al bancone: braghe di jeans; giubbotto di jeans; cappello bianco, sgualcito e sudicio, da cowboy; capelli unti che arrivano fino sotto le orecchie; dita gonfie, cristo se erano gonfie! Sempre a Los Angeles, sempre un bar: primavera del 1999, a un metro da me c’è Mickey Rourke, ci beviamo una birra, forse una Miller. Non insieme! Mica lo conosco. Era lì con due “pupe” un poco smandrappe, con tutta la mercanzia di fuori e un piccoletto in giacca e cravatta urlante, che pareva pagasse tutto. Io guardavo, dentro la vita.
In vita mia non ho mai chiesto un autografo, la trovo una cosa stupida, anzi da maniaco omicida: quell’orrenda sensazione di portarsi a casa il pezzo di un’altra persona, un pezzo senza vita che se ne starà nel cassetto a far finta di essere qualcuno che conosci intimamente.
Culp, Robert Culp, anche lui ho visto sul Sunset Strip: urlava sbronzo, fuori fino alla cinta dal finestrino di una Limousine nera. A Santa Monica passeggiavo sulla promenade distratto dalle bellezze californiane fatte solo di bikini e mi sono scontrato con Goldie Hawn, piccola, molto, ma con un corpo perfetto, aveva 54 anni all’epoca e li portava da vera bionda! Ho visto pure “Arnold“, l’attore che lo interpretava di cui nessuno ricorda mai il nome, Arnold faceva l’inviato per qualche rete televisiva alla premiere di un film. Ne ho visti molti altri di attori, una volta Drew Barrymore, in fila in ciabatte a un Caffè, si è girata e mi ha squadrato con un certo interesse, o così ha letto il suo sguardo il mio ego. Ho vissuto un mese a Los Angeles, sempre in Motels di infimo ordine, a parte una settimana in appartamento con piscina a Beverly Hills, guidavo pure una Mustang cabrio, ma questa è un’altra storia.
A dirla tutta l’incontro più interessante è stato con un ragazzo, giovanissimo, mi disse di avere vent’anni ed era così bello da sembrare un attore, tipo Di Caprio. L’ho visto un paio di volte fuori dalla lavanderia a gettoni sul Sunset Boulevard, dove andavo a lavare i pochi panni che avevo. Era un barbone davvero cencioso, ma ancora nobile nella sua giovinezza. Viveva nel deserto, mi disse, perché là, in assoluta solitudine, poteva sentirsi vicino al suo Dio, che amava più di tutto: un amore che gli aveva perfino fatto dimenticare le numerose ragazzine del liceo che gli saltavano addosso ad ogni festa. Si sa che i barboni, di tutte le età, mentono su ogni cosa che li riguarda, però un giovane così intenso non l’ho mai più incontrato.
Giù il sipario.

Compagni di sbronze