domenica 17 maggio 2020

PILLOLINE


Su il sipario
Fare fumetti, come fare qualsiasi altra “cosa artistica” non ha un'importanza specifica, oserei dire che non ha nessuna importanza. L’arte è un’esperienza umana proprio nel senso che non ha uno scopo. L’arte è effimera, non serve alla vita – in senso meccanicistico – questa è la sua grandezza: una delle caratteristiche che ci distingue dall’animale è poterci permettere di divagare.
Unite i punti e avete una linea, cioè “il segno”. La linea se fa un percorso che descrive qualcosa di universalmente riconoscibile, diventa “il disegno”. Se a questa figura riconoscibile unite un testo comprensibile, avete un fumetto. Senza testo è un’illustrazione. Senza testo ma ripetuta in diversi movimenti o situazioni abbiamo di nuovo un fumetto. Non è difficile: il fumetto è disegno che descrive un oggetto (o figura) che si muove in sequenza non continua.
Mi sento di confessare che delle polemiche sul fumetto, chiamato in modi diversi da “fumetto”, non me ne frega nulla. Trovo il vocabolo “fumetto” brutto e ridicolo, ma ormai è questo il nome e chi se ne importa. L’importante è non farci delle crociate di fede su qualcosa che ha lo stesso nome del brodetto fatto con la testa e le interiora del pesce.
Escatologico è un termine che potrei attribuire a molti discorsi che sento sul fumetto. Per me c’è una verità nella percezione che ancora persiste del fumetto, visto come una “sorta di gioco per bambini”. I fumetti non sono all’altezza delle altre discipline artistiche (odio la parola disciplina, mi sa di gabbia), questo è il sentire comune. Naturalmente è una scemenza: credo che, per esempio, in Italia la letteratura contemporanea sia fiacchissima rispetto al fumetto contemporaneo. Però è vero che vedere cinquantenni impazzire per i pupazzetti di Batman o sfoggiare finte spade laser, è sconfortante.
Tutto scorre, Panta Rei. Non c’è traccia di questa parola nei pochi scritti di Eraclito, ma il concetto lo si è attribuito a lui con un certo buonsenso. Il fumetto è Panta Rei, se non scorre non è fumetto. Non solo nel senso “pratico” di lettura, intendo che se non passa al lettore, se no c’è un flusso continuo tra vita-autore-libro-lettore-vita, non credo sia un buon fumetto. In questo il fumetto è arte: se non fa scorrere la vita (effimera!) tra e nelle persone, non è fumetto. Chi proclama una “vita di merda” a ogni spiffero, non è un fumettista.
Tutto torna: l’arte non serve; il fumetto non serve. Se la grandezza sta nell’effimero, che è per concetto accattivante, nella caducità del tutto, capirete che tutto ha la stessa importanza, cioè nessuna importanza, per contrasto. Dunque mi chiedo sempre perché i fumettisti – o gli illustratori – si offendono quando gli dicono che “non fanno un lavoro”. Altra cosa è l’essere pagati: lì divento positivista, perché sono (anche) un vizioso.
Ora è chiaro, lo è almeno per me, che il fumetto, come tutti gli ambiti che tendono a fare “ghetto”, sbagliano il bersaglio, perché laddove ci si chiude in spazzi impermeabili l’aria diventa fetida e la muffa prende il sopravvento. Perciò taglierei di netto la querelle che riguarda il concetto di fumetto come termine: chiamatelo come volete, come fate con i figli o i cani. Perché nelle lamentele dei “fedeli” si annusa odore di cancrena, mentre il Fumetto, o Alcide, o Tippi Hedren, o Bicicletta, non ha bisogno di essere rinchiuso in stupide congetture.
Giù il sipario.

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